Interviste:

 

Intervista di Alberto Cassani a Stefano Pasetto - Torna su (Up)

La sceneggiatura del film risale al 1999. Come mai c'è voluto così tanto tempo per realizzarla?
C'è voluto molto tempo per riscuotere l'interesse delle produzioni, che sono sempre un po' restie a rischiare su un esordiente e questo è anche un periodo molto difficile per tutto il sistema cinema in Italia. Ho dovuto incontrare la follia di una produttrice coraggiosa, Rosanna Seregni, ma l'attesa ci ha permesso di lavorare con maggior cura alla sceneggiatura. Non ci siamo mai fermati, abbiamo sempre cercato di migliorarla e di mantenere viva la motivazione.
Lo stile con cui il film è girato assomiglia molto a quello dei fratelli Dardenne, ma tu sei anche idealmente un allievo di Kieslowski...
Ho studiato molto la sua opera, mi sono laureato con una tesi su di lui e sono entrato in contatto con lui e con i suoi collaboratori. Però girando il film non ho mai pensato di mettere insieme le passioni per Kieslowski e per i Dardenne, i riferimenti prettamente cinematografici sono anzi stati altri. Sicuramente, comunque, c'è da parte mia una grandissima stima per entrambi. E' grazie ai Dardenne che ho conosciuto Fabrizio Rongione, tra l'altro.
Tu hai girato diversi cortometraggi documentari, ma in questo film non sembra esserci un interesse in questo senso...
Sì, non voleva essere un affresco urbano. C'era l'idea di utilizzare questo stile documentaristico - che poi questa definizione è poco più che una convenzione - perché serviva uno stile il più agile possibile, che lasciasse spazio alla recitazione. L'oggetto del mio interesse era il corpo degli attori, la città è solo lo spazio in cui si muovono.
Durante la lavorazione del film, che evoluzione hanno subìto i personaggi?
A me piace molto discutere con gli attori, specialmente con attori ben disposti al lavoro su se stessi e sul personaggio, e così facendo è normale che alcune cose finiscano per essere cambiate. In questo caso ho avuto la fortuna di lavorare con attori di provenienza diversa, con esperienze diverse, e hanno sicuramente dato un apporto creativo ulteriore. Si sono messi in discussione fin dall'inizio, perché amavano i loro personaggi e volevano lavorci sopra, volevano esplorarli quanto più possibile pur non avendo dei tempi di lavorazione che ci permettessero di farlo anche sul set. Abbiamo lavorato molto prima delle riprese, abbiamo fatto molte prove perché sapevamo che sul set avremmo avuto dei ritmi infernali.
E come hai coniugato il fatto di presentare dei personaggi in qualche modo 'multipli' raccontando una storia così particolare?
Sì, è la storia di quell'uomo e di quella donna, che però risponde anche all'esperienza di tanti di noi, quella di crearsi un ideale in tenera età per poi inseguirlo per una vita intera facendo di questa ricerca una struttura ossea, proprio come la corazza di una tartaruga. Alla fine diventa un bagaglio inconsapevole, ce lo si porta ovunque senza più rendersene conto.
Invece l'idea di narrare il film sostanzialmente tutto in flashback?
Loro sono impossibilitati a guardarsi in faccia lungo buona parte del film, e volevo un luogo in cui fossero costretti a farlo. Il parlatorio di una prigione. Partendo da lì, ricostruiscono quasi impersonalmente la loro storia, quegli incontri che avrebbero potuto essere ma non sono stati...
Hai già in progetto il tuo nuovo lungometraggio?
Sì, c'è una sceneggiatura già conclusa sulla cui base stiamo cercando di far partire il progetto. Si tratta di nuovo di un'esplorazione delle relazioni umane, del groviglio di sensazioni ed emozioni che troppo spesso tendiamo a sintetizzare con una sola parola - che io trovo sempre inadeguata, insufficiente. Sarà un'altra storia non tipica, dal titolo "Il richiamo".

 

estratto da PAESAGGI EMOTIVI conversazione con Alessandro d’Onofrio per ARCH’IT- Torna su (Up)


[…]
Alessandro d’Onofrio (AdO)
In Tartarughe sul dorso la rappresentazione è quella dell’essenza stessa dei protagonisti e delle loro problematiche esistenziali che si fondono con il luogo che le accoglie; è il soggetto che conforma i luoghi, abitandoli con il lite motiv delle sue paure.
Stefano Pasetto (SP)
Infatti, in questo caso, non è la rappresentazione dell’emozione del momento che ci fa percepire i luoghi in modo alterato, ma piuttosto è come se nei personaggi coesistessero già tante città, diversi contesti in uno ed io ne avessi scelti due terribilmente simili. Com’è simile nei protagonisti la loro inquietudine di base.
Per me è fondamentale, ancora prima della psicologia dei personaggi, partire dalla loro fisicità. E “fisica” era chiaramente l’ambientazione. Un posto che avesse quelle caratteristiche di luce, di atmosfera, quella freddezza di clima in grado di ripercuotersi sui visi. Mi venivano in mente quei volti sferzati dal vento, la pelle che si arrossa, […], il gelo emotivo si percepiva già dal modo in cui i corpi si relazionavano tra loro.
AdO
Sei andato a Trieste e hai costruito una storia sulla città o l’avevi già in mente?
SP
Le due cose hanno viaggiato parallelamente, da un lato mi era venuta voglia di raccontare i confini tra le persone, le distanze immaginarie, la paura dell’intimità, la condanna di rincorrersi sulla periferia di un cerchio, senza potersi incrociare al centro, vis a vis. Dall’altro, avevo bisogno di un’ambientazione fredda, per niente mediterranea: un porto importante con un mare che scaricasse continuamente volti nuovi. Un luogo dove gli agenti atmosferici, compresa l’atmosfera sociale, si interpongono come un diaframma fra le persone. Le alternative erano dunque il Nord Europa, con degli elementi atmosferici evidenti, o una città di confine che avesse anche delle implicazioni storiche, delle problematiche irrisolte.
[…]
Unire il confine politico e la paura dell’intimità è interessante perché sono due punti astratti, teorici. Quando sono stato a Trieste mi aveva molto colpito il suo carattere architettonico asburgico, l’idea che per un certo periodo la seconda città dell’Impero Austro-Ungarico fosse stata una città di mare. Anche i lineamenti delle persone sono “contaminati” … e poi le lingue… un posto in un certo senso vicino a tutto e lontano da tutto. Nella storia questa cosa l’ho voluta un po’ esasperare facendo diventare questa città una porta girevole dove ognuno arriva per non rimanere, di passaggio. Come essere frullati, spinti; un movimento, un’agitarsi continuo che porta a non incontrarsi.
AdO
Eppure sembra che tu voglia dire che se è possibile un incontro, per chi ha difficoltà a farlo, è proprio in luoghi come questo che può accadere….quasi un paradosso…
SP
Si, mi piace mettere in tavola i termini del problema, apparecchiare il gioco, e poi far saltare il tavolo con una soluzione imprevedibile, anzi la più imprevedibile. La casualità e i suoi teatri sono ciò che più di tutto mi affascina. […] Sai la scena di Lei che entra in pasticceria a comprare la torta? Come hai visto avviene due volte nel film, identica, si tratta dello stesso piano sequenza solo che la prima volta è interrotta a metà e non possiamo renderci conto di quell’istante che intercorre tra l’uscita di lei e l’arrivo di lui dal retrobottega. Anche nella vita è così: io mi fermo a quell’angolo e torno indietro perché sono stanco, taglio la scena, e subito dopo passa di lì una persona di cui avrei potuto innamorarmi.
AdO
Pensando ancora alla città, mi viene in mente, in uno strano accostamento, la Cracovia ne La doppia vita di Veronica, con una vita intensa che improvvisamente sparisce e si disperde nei vicoli della città quasi deserti. Anche nella tua Trieste lo spettatore “cammina” e si domanda “ma dove sono tutti, dove stanno vivendo.. cosa fanno…?” Anche i colori, la fotografia, partecipano a questo senso di spaesamento. Come hai fatto tecnicamente a renderlo?
SP
Come ti dicevo avevo già scartato i grandi porti mediterranei, Genova, Marsiglia, con le gru arrugginite quasi scrostate, i colori pastello caldi e consunti; a Trieste trovi invece delle gru giallo fosforescente, blu elettrico che spiccano sullo sfondo bianco e grigio-verde della città carsica e quindi abbiamo cercato di spingere questo concetto visivo del contrasto, riportandolo perfino negli interni. Qui ho chiesto allo scenografo che l’arredamento trasudasse colore, come un’emorragia. Veramente ad un certo punto avevo anche suggerito di bagnare fisicamente l’arredo per meglio far risultare il contrasto tonale di certi rossi o blu.. come se fossero una trasudazione naturale del mobilio. Poi non ce n’è stato bisogno visto che sono state impiegate delle vernici acriliche. Il mio è risultato un suggerimento ingenuo.
AdO
Nel film Lei si fa toccare la schiena da altri bambini solo dietro il pagamento di un oggetto, mentre Lui le regala non un oggetto ma un animale, appunto la tartaruga, che è una moneta di scambio diversa, una moneta animata carica di implicazioni metaforiche. Una corazza che è anche casa; la tartaruga è comunque un “nomade attrezzato”.
SP
“Nomade attrezzato”! Mi piace questa espressione. Sintetizza il tutto. La tartaruga, viene detto nel film, è lo scrigno di un segreto, di un trauma e come tale cresce, s’indurisce, diventa sempre più difficile da penetrare, da trasportare in una borsa. La protagonista femminile porta con sé questo animale senza sapere dove, né perché, come quel tale che attraversa il fiume e poi si porta la canoa in testa per il bosco. Nel momento in cui Lei elabora il suo lutto freudiano, la tartaruga si dissolve, non ha più motivo d’esserci.
AdO
La scena cui accennavo si svolge in uno di quegli stabilimenti, che si usavano una volta, protesi sul mare, un pontile attrezzato che non appartiene ne al mare ne al cielo. Tra l’altro ultimamente sono un tema attualissimo in architettura: a Venezia de Carlo, i lungomare di Civitavecchia e Santa Severa, a Trieste e Genova Stefano Boeri, il padiglione israeliano all’ultima Biennale. Questa terra, così drammaticamente contesa e urbanizzata, incomincia ad essere pensata come un luogo che costa troppo (in tutti i sensi). E allora si va ad abitare il limite.
E’ impressionante ritrovare tematiche parallele trasposte in un film intimista come il tuo.
SP
Il limite mi affascina. C’è in quel discorso a tre che la protagonista affronta su uno sfondo astratto con due colleghe; c’è nella corsa in bici con la zia su un molo bagnato che non si differenzia dallo sfondo marino; c’è quando lui sta sulla gru e la cabina a venti metri d’altezza si sposta dal mare alla piattaforma di cemento. Mi affascina da un punto di vista visivo e mi sorprendo a trattarlo anche in altri progetti che ho in cantiere.
Di contro amo i luoghi architettonici della claustrofobia (il laboratorio di pasticceria, i corridoi angusti, i sottopassaggi, ecc.). Un regista che stimo terribilmente e che ha lavorato con paesaggi emotivi e un tipo di stile che sento anche molto vicino, - lavorare sullo “stretto” sul “corpo” - in ambito di architettura contemporanea è Wong Kar Wai; tutto il lavoro che ha fatto mi piace molto Angeli perduti, Hong Kong Express, gli inseguimenti nella metropolitana, è tutto molto claustrofobico però al contempo è tutto individuabile.
AdO
Si, mi ricordo dell’episodio della ragazza che va di nascosto nell’appartamento dello steward single. Anche qui sono le persone che modificano gli “umori dello spazio”. In quel caso la ragazza di Hong Kong Express introduce e cambia piccoli oggetti in uno spazio privato, oggetti impercettibili, minimi, ma sufficienti per indurre delle risonanze profonde sul comportamento.
SP
Ecco, credo che Wong Kar Wai sia un enorme maestro nella creazione dello spazio cinematografico intimista….in In the mood for love l’idea di girare tutto un film ad altezza fianchi è pazzesca! Dentro appartamenti microscopici, piccoli corridoi affollati, lui rimane con la macchina sempre sulla soglia, ha delle quinte stranissime che sono i battenti di una porta, lo schienale di una sedia…. I comodini … è meraviglioso, ha una forza dirompente da questo punto di vista. In 2046 c’è un trattato di composizione dell’immagine: volumi decentrati, fuoco selettivo, campiture … incredibile! E’ la sintesi, che a me piacerebbe inseguire, tra la lettura del corpo e dei suoi dettagli e l’ambiente.
AdO
Il tuo rapporto con Roma… dove sei nato e lavori
SP
Ho scritto molti soggetti ma non riesco a scrivere niente che sia ambientato a Roma. Ho un rapporto strano con questa città, non perché sia la mia ma perché probabilmente è una città a vocazione pubblica… e poi forse è la città più filmata in assoluto insieme a New York e Parigi. Quindi non trovo uno spazio intimo, con cui stabilire un rapporto esclusivo, perché c’è già passato il cinema dieci volte, la televisione, (alcuni luoghi li ho visti addirittura prima di andarci) è come esporre delle situazioni emotive private in un contesto di mercato.
AdO
Qual è il rischio di contaminazione da parte di una città letteraria? Come hai gestito l’eredità di immagini e immaginario che la città simbolo del decadentismo italiano comunque trasmette…
SP
Quando ho chiesto ai location manager triestini di trovarmi un caffè, chiaramente il loro orgoglio di campanile ha fatto cadere le proposte su caffè storici, meravigliosi locali dove ci sono delle targhe che non riusciamo neanche più a comprendere, come “Qui Joyce ha cominciato a pensare l’Ulisse”… A me invece serviva di rappresentare un costume effettivo, perché al caffè San Marco trovi ancora i professori universitari che incontrano i loro allievi per parlare di poesia, però spogliato del suo alone letterario … per cui ho scelto alla fine un caffè moderno, in centro, che avesse un chiaro rapporto tra interno ed esterno attraverso una vetrata da cui il protagonista poteva scattare delle foto. Però questo “stare dentro” e osservare l’esterno l’ho assorbito dalla città.. tant’è vero che il luogo di incontro-nonincontro fra i protagonisti l’ho immaginato in un tram, che doveva diventare una specie di acquario. Un qualche cosa che viaggia nella città ma che è a sua volta un mondo chiuso, dove magari non c’è nessuno o se c’è non interviene. Avevo anche scritto una scena che doveva esplicitamente dare l’idea di un acquario, ma era difficile da far rientrare nei tempi di lavorazione.
AdO
L’elemento vetrina. Nel tuo film ho notato alcuni episodi in cui “mostrarsi” coincide con il “guardare”. Il protagonista fa foto dall’interno di un caffè –guarda e rappresenta- ma allo stesso tempo si mostra all’esterno. Nella stessa scena arriva poi un bambino che spalma un cono gelato sulla vetrina – l’esterno sensibile, l’infanzia, cancella lo sguardo. Poi la protagonista femminile, che lavora come donna delle pulizie di notte in un grande magazzino, diventa essa stessa parte della composizione delle vetrine, una sorta di manichino mobile. Ecco questo è come un sottotema che hai solo accennato, una sorta di inciso in cui il soggetto diventa oggetto anche commerciale. Qual’è la differenza tra chi è una sorta di interprete inanimato di una vetrina e chi da quella vetrina vorrebbe stare solo a guardare ma qualche cosa glie lo impedisce? Mi sembra che sia in gioco un discorso di autocoscienza.
SP
L’”elemento” vetrina è l’altro limite, se vuoi confine, metaforico e fisico dello sguardo. È il piano proiettivo del senso, anzi delle sfumature di senso, proporzionali ai gradi di rifrazione e opacità. Non è certo un’invenzione, non sono il primo a subirne il fascino. Dal punto di vista cinematografico mi permette di rappresentare alcuni passaggi o stati d’animo senza dover ricorrere a stilemi consunti come le dissolvenze. È la contemporaneità della visione, ma non mi sento di dire di averne sempre la totale coscienza, sono cose che escono dalle suggestioni della mia formazione. Ricordo un’installazione di Studio Azzurro, “Camera Astratta”, dove riuscivano ad annullare le quinte proiettando il dietro le quinte sulla scena. Un lavoro simile alla proposta della Stalkagency per la biennale, dove si proiettava l’esterno all’interno e l’interno all’esterno per aggredire la parete.
AdO
Il campo delle installazioni è forse uno dei pochi e veri punti di scambio multidisciplinare. La fisicizzazione di un presente che ci sfugge o che semplicemente non siamo abituati a vedere; la rappresentazione di un tempo contemporaneo che a volte può sembrare già futuro.
SP
E’ un paradosso in effetti, perché l’architettura che si occupa dello spazio, del reale, anzi del più reale dei dati e quindi del presente, in quanto lo spazio ci circonda ed è sempre hic et nunc, finisce per occuparsi del tempo. E, d’altro canto, quel cinema che più riflette sul tempo finisce per raccontare gli spazi. Penso a Tarkovski, Anghelopulos, Chris Marker e Wenders.
Non posso dire di avere una particolare cultura architettonica o artistica se non quella della formazione universitaria, ma alla fine per me il cinema è soprattutto un pretesto per raccogliere i problemi espressivi di altre discipline, è una grande occasione così come lo è l’architettura, ma per voi architetti forse questo è chiaro fin dall’inizio. Per questo motivo il cinema non lo considero arte a prescindere. Ci sono dei miracoli avvenuti nella piccola storia dello schermo, ma io dopo aver visto ormai tante migliaia di film posso pensarne solo qualche decina. Sto parlando di film che ti cambiano la percezione dello spazio, del tempo e delle relazioni. Spero che tu non volessi parlare di quel cinema!

 

da CINEMA.IT La sfida dell'umilt� intervista a Barbora Bobulova di Marco Spagnoli - Torna su (Up)

[.] Tartarughe sul dorso mi ha colpito per la sua sceneggiatura: scritta benissimo e per niente banale. Anche se si tratta di una storia d'amore. Il film racconta di due persone che sono destinate l'una all'altro. Eppure entrambi, inspiegabilmente, sfuggono. Non riescono mai a toccarsi, ad incontrarsi e a guardarsi. la fine, poi, � aperta allo spettatore. Mi piaceva il gioco del sottinteso. Adoro i film dove non si spiega tutto e si lascia molto all'immaginazione del pubblico. Come nella vita. dove tutto rimane sempre aperto e non si chiude mai del tutto. Il mio personaggio � simile a me: � una donna che in passato ha sbagliato treno, perch� non ha avuto il coraggio sufficiente a seguire comunque il proprio istinto. Alla fine � sufficientemente lucida per capire quello che non vuole.

 

Giorgio Gosetti da presentazione "Giornate degli Autori" - Torna su (Up)

[.] Stefano Pasetto non � un cineasta minimalista; non lo era con i suoi corti, punta al cuore del cinema europeo anche con la sua opera d'esordio ambientata al crocevia delle frontiere, in una citt� che � porto, che si apre e si chiude su esistenze singole e collettive. Dice di amare il cinema dei Dardenne e a loro ha "rubato" Fabrizio Rongione; � stato allievo di Kieslowski e se ne sente l'eco in quella busta di plastica sospesa nel cielo, esposta ai venti. Ma sono furti d'autore e mi appaiono promettenti.