… il primo lungometraggio di Stefano Pasetto
merita, è ben scritto, sfrutta Trieste come location dell'anima
e si lascia accompagnare con dolente melanconia ai puntuali tratteggi
delle note della Banda Osiris. Strutturato a incastri, come la partita
di Scarabeo che sorregge lo sviluppo narrativo, gioca di sottrazione,
ha pudore e rispetto per chiunque, e non si lascia incantare dalle lusinghe
delle facili scorciatoie. Scelti con cura i comprimari (tra i quali
spiccano Luigi Diberti, Chiara Sani, Vittorio Amandola e Gordana Miletic),
e bravissimi i due protagonisti, dal Fabrizio Rongione di Rosetta all'ormai
matura Barbora Bobulova, cuore sacro di un'opera che, con umiltà,
ha l'ambizione di circondare con amore alcuni disagi del galoppante,
cinico, egoista mondo contemporaneo....
In questo equilibrismo temporale, Stefano Pasetto,
il regista di Tartarughe sul dorso al suo debutto nel lungometraggio,
sceglie efficacemente, in controtendenza, di immergere la storia nella
dimensione rarefatta di una Trieste impersonale, dove magicamente basta
sfiorarsi, a volte, per riconoscersi.
Alessandra
Miccinesi da Cinespettacolo.it - Torna su (Up)
E’ questo un film sui piccoli segni (una
busta di plastica che danza nel vento; il funambolismo casalingo per
allenarsi a guardare la gente dall’alto in basso; la tessera dello
Scarabeo nella tasca di un camice bianco), un film su segreti da dimenticare,
e sulle scelte che rendono tragicamente compiuti due destini.
Una storia d’amore e sentimenti contrastati,
a tratti davvero originale. […] Poche immagini che restano scolpite
nella mente di chi guarda, poche, pochissime parole, come se tutto l’impianto
narrativo del film fosse sostenuto dai non detti, da un silenzio molto
più eloquente di qualsiasi dialogo che conduce spesso alla saturazione.
Al posto delle parole i simboli, chiarissimi fin dai primi fotogrammi,
tracce molto significative per lo spettatore più attento - tra
le quali la musica, affidata alla Banda Osiris.
Marco
Catola da Cinemainvisibile.com - Torna su (Up)
Un film anomalo che tenta di sovvertire le regole
convenzionali di un genere intoccabile come il melò stravolgendo
il senso narrativo con un montaggio ad ellissi e annullando l’obbligo
di delucidazione del movente emozionale dei protagonisti. Un film che
ha davvero poco di italiano. E per questo ben più apprezzabile
di tanto altro cinema nostrano, trattandosi oltretutto di un esordio.
Con uno sguardo asciutto e nitido si ripercorre a ritroso la macchinazione
istintiva, illogica e fortuita del destino che ha portato due anime
sole a sfiorarsi, incontrarsi, lasciarsi, riprendersi, riperdersi. Paradossalmente
un esordio che per atmosfera ed intensità, e non solo per la
comunanza dell’attriceprotagonista (Barbora Bobulova), ricorda
un altro esordio interessante, “La spettatrice” di Paolo
Franchi. Insomma Pasetto e Franchi, due registi da seguire e tenere
d’occhio. E se se ne accorgesse pure il pubblico italiano sarebbe
meglio…
Tartarughe sul dorso è l'audace tentativo
di un esordiente regista italiano. Stefano Pasetto, al suo primo lungometraggio,
si dimostra capace di raccontare una storia utilizzando alcune buone
trovate espressive e stilistiche. Nel suo film di anime e di ricordi,
di scelte e fatalità, cogliamo le potenzialità di un autore,
sinora impegnato in documentari e cortometraggi, alla ricerca della
migliore immagine e della migliora inquadratura, ricche di espressività
e concettualità.
Il tempo narrativo si trasforma lentamente in un tempo stilistico del
racconto. Tutto è disordinato, sconvolto. Come la loro vita.
Che diventa un gioco di incastri, dove hai necessariamente bisogno della
vita degli altri per sopravvivere. È un gioco di immagini e lettere,
come un rebus. Destino complicato e indecifrabile. La vita che Pasetto
vuole raccontare è questa: focalizzata sull'importanza dell'altro.
Come un'impronta che rimane indelebile. Questa rimane su una schiena.
Nella testa e nel cuore.
Plastica che vola dal piede di lei a quello
di lui, guidata dal Destino. I cruciverba su carta e quelli su pelle.
L’animale del titolo, capace di sopportare tutto, ma anche reale
pegno d’amore infantile. I tasselli dello Scarabeo che formano
le parole chiave della vicenda che seguirà. Un amore inevitabile
ripercorso in flash back. La pasticceria, l’ospedale, il carcere.
La stanza spoglia martellata dal sesso professionista della vicina.
Trieste: set suggestivo e poco sfruttato (chi ha visto la recente fiction
con Buzzanca non ne avrà dimenticato i riverberi a far da sfondo
a quelli di Caterina Vertova). Atmosfere intense ma rarefatte. L’idea
che l’aria sia qualcosa che prendiamo continuamente in prestito
e subito restituiamo. La violenza come furia improvvisa ma non inaspettata.
La fuga dalla passione da parte dei presunti forti. Lo sgomento smarrito
di chi nell’amore aveva invece provato a fuggire. Quando il cinema
italiano si lancia sulle evocative orme di Kieslowski (ma il protagonista
e qualche idea vengono da “Rosetta”, essiccato capolavoro
dei belgi Dardenne), è inevitabile che si incarni nell’interprete/spettatrice
Barbora Bobulova. A differenza del figurativo “Cuore sacro”,
qui i suoi primi piani brillano interiori. Assai bravo il regista deb
Stefano Pasetto nel dare forma allo stile.
Tutto si può dire, di Tartarughe sul
dorso, ma non che non sia un film ispirato.
Buone le pennellate psicologiche, buona la musica (della Banda Osiris),
interessante il montaggio (con questa lunga partita a Scarabeo che percorre
tutta la storia, lucido intreccio di parole per chi per anni non è
riuscito a parlarsi). Buona l'atmosfera desolata, ottimi e intensi gli
attori Barbora Bobulova e Fabrizio Rongione.
Ho avuto la fortuna di assistere all'anteprima
del film, e poi di conoscere sia Barbora, che Stefano Pasetto, e devo
dire che oltre ad essere un bel film, loro sono davvero persone squisite.
Il film mi è piaciuto molto per come è stato interpretato
da Barbora, ma anche per come è stato pensato da Pasetto. La
trama potrebbe essere una delle piu' scontate, ma il genio di questo
regista ha fatto si che l'attenzione dello spettatore sia sempre al
massimo anche nei tratti più lenti del film. La città
di Trieste è un degno scenario dipinto con tratti anni 70 e l'immagine
un po sfocata e sporca rende tutto molto più vero. Lo consiglio
a tutti coloro che vogliono vedere un film diverso e soprattutto non
scontato.
Giampaolo Italia, 2005
TURTLES ON THEIR BACKS
(TARTARUGHE SUL DORSO) (Variety)
- Torna su (Up)
JAY WEISSBERG
Words on a Scrabble board trigger memories of surreptitious glances
and near meetings in "Turtles on Their Backs," an ambitious,
beautifully played meditation on the cross-currents of two lives that
barely touch yet seem constantly connected. Novice helmer Stefano Pasetto
starts with a nameless man and woman and builds their recollections
in the same manner as the letters from the game, one off another, jumping
time but keeping within a more-or-less linear narrative. This well-sustained,
unpretentious meditation on the power of memory should do best at smaller
fests, where it can stand out. […] While Pasetto's structure is
complex, this is no "Marienbad," and he never questions the
reliability of these memories. Instead, they bounce off each other and
shift from the present to the past, intersecting so elements formed
from each perspective occasionally connect in "Elephant" fashion.
There's more here than mere recollection, however: Inextricably tied
in are considerations of communication, loneliness and fear of intimacy
that all conspire to thwart fulfillment. If at times it feels as if
Pasetto is unsure how to combine his experimental structure with more
traditional forms of narration, he shows great subtlety in this first
feature, and doesn't let the serious mood negate passages of humor.
In her most mature work yet, Bobulova ("The Spectator," "Mirka")
offers a moving, sensitive portrait of world-weariness, like someone
whose inner flame has preternaturally blown out; in this, she's nicely
paired with Rongione's angry young man.
Pasetto's feel for colors is apparent in his careful matching of shades
to mood, especially in the way he's worked with the art director and
costume designer. Title refers to the inability of turtles to right
themselves unaided when flipped over.
da FRAMEONLINE
Paola Galgani, 25/10/2004 - Torna su (Up)
[…] Un film
dai toni delicati, ma in realtà duro e sincero, in cui il regista
manifesta la sua particolare sensibilità per le piccole cose
di ogni giorno, e ci trasmette la sua visione originale della vita,
fatta di frammenti, di ricordi d’infanzia, di doni fatti di nascosto
e di odori del passato.
All’originalità della sceneggiatura, giocata su pochi dialoghi
e molti silenzi, fanno riscontro scelte di regia ben studiate e una
fotografia suggestiva che rappresenta Trieste in tutta la sua gelida
accoglienza. L’uso di elementi come un evidente simbolismo - la
tartaruga che dà il titolo al film, il gioco dello scarabeo,
il filo da acrobata - e i numerosi flash-back e intrecci temporali che
ne seguono, lungi dall’appesantire lo scorrere della narrazione,
accendono maggiormente la curiosità verso una storia ben lontana
dai soliti cliché. Il senso di vuoto e di disperazione, l’angoscia,
l’autodistruzione, una sensibilità tesa all’estremo,
l’impotenza di fronte al destino, lo stupore di fronte alla scoperta
che dei frammenti di secondo possono cambiarci la vita: questi i temi,
profondamente umani, che il regista ci propone e che i protagonisti
incarnano alla perfezione con i loro sguardi e le espressioni intense.
Pur se adulti, Lui e Lei hanno conservato un qualcosa di infantile nel
loro vivere, spiando il mondo dai suoi angoli più inusuali. Nel
loro disorientamento, quando finalmente sono messi nella condizione
di poter scegliere, di fronte al destino fanno fatica a riconoscerlo
e ad accettarlo e fanno scelte d’istinto e non di razionalità.
Fabrizio Rongione e Barbora Bobulova sembrano perfettamente a proprio
agio nei loro ruoli di disadattati in una città dall’identità
incerta e mutevole come Trieste. Entrambi esprimono perfettamente l’inquietudine
e un senso di attesa indeciso tra la rassegnazione e la speranza; i
loro sguardi, stralunato quello di Lui, deluso quello di Lei, incarnano
la rabbia repressa (e pronta a esplodere) di chi, a costo di soffrire,
non accetta di piegarsi alle regole e alle aspettative altrui. Così
anche il regista ha scelto di non dare allo spettatore ciò che
solitamente si aspetta ma ha fatto delle scelte coraggiose e sincere
per un’opera in cui, evidentemente, credeva in modo totale.
Il film, che ha potuto usufruire del contributo del Ministero dei beni
culturali, è stato presentato alla 61a Mostra di Venezia nella
sezione Giornate degli autori.
Il giovane regista Stefano Pasetto, qui al suo
primo lungometraggio, costruisce una storia d’amore originale,
incentrata sulle casualità della vita e sui tempi che non si
incastrano, come in un gioco da tavolo con un difetto di fabbrica. Subito
appare, infatti, una partita di Scarabeo tra un uomo e una donna, in
cui le parole man mano composte ci svelano i frammenti successivi delle
vite dei protagonisti.
Un “Lui” dallo sguardo stralunato del disadattato e una
“Lei” con gli occhi tristi arrivano a Trieste per cominciare
una nuova vita. Lui non riesce ad integrarsi neanche nel microcosmo
di una pasticceria, in cui il suo individualismo rabbioso prevale sullo
sforzo di seguire le regole; Lei soffoca i suoi desideri nella fatica
quotidiana di un pesante lavoro notturno. Entrambi rifuggono con ostinazione
i rapporti con gli altri, finché, dopo anni in cui sfiorano inconsapevolmente,
vengono a contatto in modo drammatico e inaspettato e si scoprono uguali.
Lei sceglie di lasciare tutto ciò che aveva costruito fino a
quel momento, bello ma falso, mentre nell’uomo scatta il desiderio
di proteggerla, prima dal pericolo di contagiarla con la sua rabbia,
poi dalla violenza altrui. E spinge quest’istinto all’estremo,
fino a perdere in suo nome la libertà duramente conquistata.
La trama, costruita con cura, ribalta i cliché della classica
storia d’amore; gli eventi si dipanano fluidamente, pur sgretolandosi
in continui sbalzi temporali.
Frammenti del passato, vissuti o immaginati,si infrangono contro la
durezza del presente, riducendosi solo alla fine in un imprevedibile
cerchio.
Sui dialoghi scarsi ma intensi prevale il non-detto: urla non gridate,
lacrime non versate, parole non pronunciate. Il regista, nonché
sceneggiatore, adopera un tono narrativo neutro, sembra non esprimere
giudizi, prediligendo un simbolismo elementare (il gioco dello Scarabeo,
il filo da acrobata, la tartaruga pegno d’amore) ma che riesce
a non cadere nella banalità grazie alla sua impronta sincera.Tratteggiando
situazioni ricche di inventiva, ci presenta personaggi carichi di umanità
e contraddizioni, a partire dai protagonisti intensamente interpretati
da Fabrizio Rongione e Barbora Bobulova fino ai personaggi secondari,
mai schizzati superficialmente ma ognuno con la sua originalità
carica di spunti.
Alla storia fa da sfondo una Trieste dai colori invernali, malinconica
e onirica, arricchita dalla bella fotografia di Paolo Bravi. Nel complesso
dunque una prova riuscita, condotta superando il timore di spiazzare
lo spettatore tramite l’uscita dai binari consueti.
Il gioco dello Scarabeo usato come strumento
di conoscenza dentro le vertigini emozionali scandite dai capricci del
destino, nel fragile ma promettente esordio di Pasetto, con un passato
di documentarista, in Tartarughe sul dorso, quasi una love story tra
esistenze marginali, in una Trieste notturna e piovosa fotografata come
una città irreale. Il regista nel raccontare i disagi della precarietà
sceglie uno stile minimale e l’uso del montaggio incrociato per
evidenziare l’indifferenza verso chi resta estraneo ai meccanismi
produttivi e sceglie una rielaborazione personale della solitudine
da CLOSE UP TARTARUGHE
SUL DORSO di Simona Morgantini [settembre 2004] - Torna
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Strutturato sulla falsa riga di un melò,
Tartarughe sul dorso narra la storia d’amore infelice e complicata
di due giovani: semplicemente “Lei” e “Lui”,
due personaggi reali e concreti e ben costruiti a livello narrativo
nonostante l’astrattezza dei nomi. La città in cui si consuma
la storia d’amore, storia che risente di forti suggestioni del
cinema di Antonioni, è una triste e bellissima Trieste immortalata
dalla splendida fotografia di Paolo Bravi. Trieste è una città
che fonde molte culture europee proprio come il cinema di Stefano Pasetto
che, allievo di Kieslowski e amante del cinema della nouvelle vague,
esordisce felicemente con un’opera prima piena di poesia e sotterranee
simbologie filosofiche. Il mare autunnale fosco e inquietante è
testimone del primo incontro fra i due protagonisti: una sorta di imprinting
avvenuto quando i due erano ancora in tenera età. […] L’
imprinting insomma è fondamentale e se l’energia che si
scatena dall’incontro è molto forte l’evoluzione
del rapporto lo sarà altrettanto. Il ripetersi ciclico delle
situazioni avviene come se i protagonisti dovessero imparare qualcosa
da queste esperienze.
Pasetto afferma che la tartaruga viene scelta simbolicamente perché
trattiene sotto un guscio forte e tenace una parte molle e tenera come
i sentimenti e i ricordi dei protagonisti. C’è una simbologia
anche nei personaggi: Lei è cervellotica ed eterea e il suo ricordo
si fissa sul punto della nuca, Lui invece è pura istintualità
e carnalità e schiavo per sempre di questa forza vulcanica e
impetuosa che non riesce a trattenere e non a caso verrà colpito
alle gambe. I due protagonisti risultano entrambi molto convincenti
e Barbara Bobulova conferma la sua bravura nei personaggi timidi e sofferti
(come già aveva fatto nel film La spettatrice”di Paolo
Franchi).
I dialoghi abbastanza letterari rientrano in perfetta armonia con il
contesto stilistico
da FILMUP.COM di Teresa
Lavanga - Torna su (Up)
Ripensare alla propria vita come ad una serie
di occasioni mancate, di persone sfiorate, di frasi non dette […].
Trieste, città malinconica, di confine, città sempre alla
ricerca di una sua identità eppure con una identità fortissima,
fa da scenario ad una storia di amore post moderno, un amore che va
oltre i canoni classici, un amore che rompe ogni regola, un amore per
nulla tenero e affatto scontato. Non ci sono nomi, i due innamorati
(se così si possono definire) potrebbero essere chiunque, così
come non ci sono scelte logiche. Tutto è immediato, istintivo.
Dopo una serie di incroci fortuiti e casuali, in cui si toccano fuggevolmente,
i due si ritrovano in una sala operatoria e finalmente si riconoscono,
ma a questo punto il sogno si trasforma in realtà ed il risveglio,
per quanto possa sublimare i sensi, non riesce a soddisfare lo spirito.
[…]
Trieste, città di confine e luogo di incontri,
è stata scelta da Pasetto come cornice di una singolare storia
d’amore raccontata nella sua travagliata genesi. Tempi dilatati,
l’occhio si sofferma su particolari apparentemente insignificanti.
[…]
Il filo conduttore della narrazione è doppio: da un lato la ripetizione
di una formula crea una sorta di ritmica poetica, assecondata da immagini
il cui ritmo ricalca quello dell’anima; dall’altro il gioco
dello scarabeo, onnipresente nei momenti di intimità, anticipa,
per mezzo delle parole che si formano sul tabellone, le tematiche della
sequenza successiva. […] La mancanza di nomi propri non solo implica
la possibilità di una più immediata identificazione dello
spettatore, ma amplifica anche il livello di intimità dei personaggi
costretti a un dialogo diretto. Un sottile simbolismo permea i pochi
riferimenti alla concreta vita dei personaggi, a partire dalla tartaruga
della protagonista. È inevitabile uscire della sala chiedendoci
se anche nella nostra vita c’è una tartaruga, e se mai
un giorno se ne andrà per lasciare posto a una nuova realtà.
L’interrogativo retorico suscitato dal film è lo stesso
che tormenta abitualmente ognuno di noi: esiste un destino che ci fa
incontrare, perdere, ritrovare...?


